Isole Lofoten in vista

Ancora totalmente increduli per essere veramente riusciti a prendere il traghetto, troviamo i primi posti a sedere disponibili e ci lasciamo cadere quasi a peso morto sulla morbida tela violacea che li ricopre, con gli zaini ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone che non è ancora passato, ci guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente felice, non so come avremmo potuto reagire vedendo il traghetto partire senza di noi proprio sotto gli occhi, condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il computer di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà un paio d'ore: è scritto tutto, la velocità della nave, quella del vento e la direzione in cui spira, la posizione sulla carta geografica che stiamo occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui v’è la striscia colorata che si allunga mano a mano che la nave prosegue nella sua traversata. Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, sono troppo concentrato sul colpo di fortuna assurdo che ci è appena capitato. Quando Davide esce per fare delle riprese con la videocamera, io non ho nemmeno la forza di alzarmi, sono ancora scosso e preferisco rimanere seduto a lasciare scaricare l'adrenalina spontaneamente, con le gambe che mi tremano ancora leggermente. Un po’ di succo di frutta, l'ultimo rimasto, toglie l'aridità della gola, la barretta di cioccolato mi ridà forza, fino a che mi avventuro fuori anch’io: solo ora dopo parecchi minuti mi accorgo che Bodø si sta allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano. Il forte vento mi fa presto rientrare, per ora ho solo voglia di starmene dentro tranquillo e rilassato in un ambiente caldo, finchè non mi sarò completamente ristorato. Quando però le isole sono vicine, non posso esimermi dal tornar fuori a vederle: sono veramente uno spettacolo unico. Già da lontano si nota che le montagne hanno qualcosa di strano, insolito per un'isola come siamo abituati a vederle: sembrano dei grossi denti che spuntano direttamente dall'acqua, in gran parte irregolarmente frastagliati ed aguzzi, quasi tutti piegati in un unica direzione. Come se ci sia un dente del giudizio che li costringe a spostarsi lateralmente accalcandoli gli uni contro gli altri, o come se ci sia una forza gravitazionale invisibile sopra l'isola che attira irresistibilmente le cime delle montagne tutte da una parte. Ci avvicinamo sempre di più al punto di attracco per la nostra nave, osservando molto intensamente queste strane rocce e il paesino che sta appena sotto di loro: è il tempo di visitare il paese delle meraviglie.

Moskenes

Questo villaggio nella punta meridionale delle isole è il nostro punto di arrivo, e non appena messo piede a terra lo sbalordimento non fa che aumentare: la tipologia di montagna è identica alle Dolomiti dall'altezza di circa duemila metri in su, esclusivamente erbose e totalmente spoglie di vegetazione arborea o anche arbustiva, direttamente stagliate sull'oceano senza terreni a fare da divisorio, tutte così curiosamente inclinate. Quello che sembra un telo rosso è in bella vista vicino alla cima di una di queste montagne, cerchiamo di capire cosa sia: una tenda? Un segnale di pericolo? Non ci viene in mente nulla di convincente per spiegarlo. Ci concentriamo meglio su ciò che abbiamo immediatamente davanti agli occhi: Moskenes è un borgo turistico piccolissimo ed insignificante, con un ufficio informazioni però efficiente: per queste isolette dimenticate dal mondo, la pesca ma soprattutto il turismo significano tutto, per il sostentamento. Lì scopriamo che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å, il paese monolettera che è un po’ il punto di riferimento delle Lofoten meridionali. Ancora con gli occhi non abituati a questo ben poco comune panorama insulare, ci sediamo pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma non si vede nulla arrivare. Siamo in pochissimi, la zona è di un silenzio quasi totale, rotto solo dai rari commenti dei pochi turisti. Diverse automobili sono ferme aspettando di entrare nel prossimo traghetto che le riporterà sulla terraferma, ma nulla si muove. Arriva da lontano un anonimo furgoncino che supera la piccola chiesetta bianca del paese, passa oltre a noi senza fermarsi e parcheggia dietro il centro informazioni, sparendo dalla nostra vista. Non ci facciamo molto caso, finchè Davide avanza un'ipotesi audace: non sarà quello il nostro pullman? Presi dalla curiosità andiamo a controllare, e l’intuizione si rivela azzeccata: grande poco più di un furgoncino dei gelati ambulante, conta solo quattordici posti a sedere. Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å, in soli dieci minuti di strada.

Verso Å

Saliamo divertiti su questo trabiccolo un po’ malandato ma onesto, per goderci dieci minuti di strada assolutamente indimenticabili: lo spettacolo che offrono queste isolette è impareggiabile, si conquista immediatamente il primato di posto più bello al mondo che ho visitato finora, e ce ne vorrà prima che qualche altro lo superi. Semplicemente meravigliose. Ovunque ci giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte o incastrate in mezzo alle rocce costiere su cui cresce solo della fragile erbetta o qualche raro arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca terra presente, barchette da pesca ormeggiate sotto le case, cespugli di fiori circondati da innumerevoli laghetti, golfi che penetrano fin nei villaggi grazie a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne di nuda roccia appuntite e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi perfettamente con la geometria dei villaggi e strapiombando sull'oceano immenso, un paesaggio che sembra uscito dalla penna del più fantasioso scrittore di favole mai esistito a questo mondo. I quadri nel museo di Oslo non erano semplice fantasia. Penso subito che quando sarò pensionato vorrò trasferirmi qui a vivere gli anni che mi restano. Ancora oggi ci sto pensando.

Il villaggio di Å è altrettanto meraviglioso: conta circa un centinaio di abitanti, è quanto di più appartato e rustico si possa pensare. Nonostante abbiano tutti l'accesso a Internet grazie alla galoppante diffusione della tecnologia, questo vecchio e fiero borgo di casette rosse con i tetti grigi, abitato da pescatori e innumerevoli gabbiani, resiste al passare del tempo senza abbandonare le sue tradizioni nè un briciolo della sua storia, piccola ma significativa. Ogni singolo angolo di strada è veramente pittoresco: c'è un unico negozio di alimentari di legno bianco che utilizza ancora il vecchio metodo delle etichette arancioni incollate con scritto sopra il prezzo delle merci, il registratore di cassa è manuale come si usava tempo fa. Un solo ristorante che dà diretto sul mare in una posizione strategica, baracche di legno che fungono da officine attrezzi ormai trasformate in musei, dei tralicci di legno sparsi per tutta l'isola, usati da secoli per appendere gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far asciugare le reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati dall'impatto con questo mondo così lontano dalla nostra realtà quotidiana, troviamo immediatamente l'ostello: il paese è così piccolo che è impossibile avere problemi di orientamento. All'ufficio turistico, anche qui presente e funzionante, non ci danno la pianta della città come chiunque si aspetterebbe, bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di metri di altezza, che basta a comprendere in un colpo solo tutto quello che c'è da vedere.

Sistemate le formalità burocratiche, troviamo la nostra camera, in un edificio poco distante: non abbiamo nemmeno bisogno di chiedere informazioni all’autista, ci ha lasciati proprio lì davanti. Alloggeremo in un carinissimo rettangolino di legno con quattro letti singoli, dalle finestrelle quadrate, molto piccolo e spartano ma così accogliente e pittoresco da far venire voglia di viverci, con la stufetta elettrica vecchissimo stile che sta fuori dalla porta della camera pronta ad essere usata in caso di necessità. Sorprendentemente non c’è quasi polvere sui pavimenti nè sulle suppellettili, un ottimo regalo per noi che siamo allergici. La camera è ancora completamente libera, gradiremmo proprio essere da soli, a goderci quello splendido posticino, ma dovremo aspettare la sera per scoprire se qualcuno avesse prenotato anche gli altri due letti. Ci concediamo un'ottima birra comprata all'alimentari di fianco, questa volta senza lucchetti nè limitazioni di alcun genere, gustandocela in ogni sorso come simbolo di nuovamente ritrovata libertà.

Un centinaio di chilometri sopra il Circolo Polare Artico, ora siamo proprio in un altro mondo.

Le botteghe

Non possiamo assolutamente non esplorare ogni angolo del paese, e cominciamo subito dopo bevuto l’ultimo sorso di birra: una mezzoretta prima che chiudano riusciamo a visitare tutti i musei del posto, se così si possono chiamare viste le loro dimensioni. Ognuno in passato era adibito a una funzione diversa: la casa del pescatore è talmente piccola che si fa fatica a muoversi, le scale sono conformate nel modo usuale ma sono talmente ripide da risultare quasi verticali come una scala a pioli, da cui sono pericolose da salire e scendere senza aggrapparsi da qualche parte. I soffitti sono bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici che sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita dei pescatori, abituati alle poche comodità e al molto lavoro. Su ogni comodino si trovano soprammobili di porcellana, fotografie ricordo e vecchissimi vasi di ceramica; nella cucina sono allineate tutta una serie di bottiglie di vino tipico, un po’ impolverate, da annusare solamente. In ognuna di quelle si sente un odore caratteristico, totalmente diverso dai vini a cui siamo abituati. La tentazione di rimanere ad abitare per un po’ in quei piccoli gioiellini dismessi e provare com'era la vita dei pescatori è veramente forte, ma dobbiamo accontentarci della camera del nostro ostello, in cui potremo tralaltro soggiornare solo una notte per problemi organizzativi: il giorno dopo ci sposteranno in un altro edificio. Poi c'è la rimessa delle imbarcazioni e degli attrezzi per pescare, tutti abbondantemente arrugginiti ma che meritano rispetto per tutto il pesce che hanno estrapolato dal mare durante la loro vita lavorativa, pesce che ha dato da mangiare e continua tutt'oggi a nutrire migliaia di persone. Sempre lì si trovano delle impressionanti ed autentiche ossa di animali acquatici, in particolare una vertebra di balena, identica per forma a quelle umane e grossa come un televisore di medie dimensioni: da rimanere di stucco! Sapevo che la balena può raggiungere e talvolta superare i trenta metri di lunghezza, un record di dimensioni per un essere vivente a questo mondo, ma vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte la corrispondente umana, è impressionante!
Successivamente vengono la fabbrica di olio di fegato di merluzzo, la più antica dell'intera Europa: le capsule che ingoiamo oggi per ridurre i nostri livelli troppo alti di colesterolo arrivano da posti come questi. A pensarci è strano, fa capire come tutto il mondo sia collegato insieme da una rete invisibile di cui purtroppo spesso non ci rendiamo nemmeno conto, credendo di bastare a noi stessi e di non aver bisogno di niente altro, di nessun altra cultura diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte del mondo è importante per dare il suo contributo al massiccio e poliedrico ingranaggio della vita. Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le sue morse arrugginite ma ancora funzionanti, i suoi utensili di ogni forma e dimensione, dove si fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci e le lampade ad olio indispensabili per illuminare con la loro luce fioca le abitazioni nei duri mesi invernali. Infine il panificio, cosa per noi banale essendo abituati ad averlo sotto casa, ma che alle isole Lofoten era un importantissimo punto di riferimento per l'intero paese, una pietra d’angolo. Il suo enorme forno annerito tace, ma chissà quanta farina ed acqua saranno finiti in quella piccola grotta rovente, e chissà come era buono il pane fatto qui. Questa era la vita che si faceva ad Å: semplice, tranquilla, di pochissime pretese e altrettante poche aspettative, atta solo a guadagnarsi da vivere onestamente e con dignità senza dare fastidio a nessuno, e soprattutto senza distruggere l'ambiente. Una vita che può apparire invidiabile o detestabile, ma indiscutibilmente autentica. Se penso che anche questi gioiellini di isolette fuori dal mondo sono state coinvolte loro malgrado nella seconda guerra mondiale, in cui l'unico obiettivo era distruggere il più possibile per accaparrarsi una supremazia territoriale ed economica, mi chiedo veramente a che livello possa arrivare l'idiozia di alcuni esseri umani, sempre che si possano definire propriamente tali e non si meritino l’appellativo di subumani, ipotesi più volte avanzata nel tentativo di descriverli.
Tentiamo anche una veloce visita al museo dello stoccafisso, vero motore dell'economia locale, esportato nel Vicentino dalle intere isole Lofoten grazie ad un gemellaggio collettivo che garantisce continui scambi sia commerciali che culturali: in quel di Vicenza poi lo stoccafisso viene cucinato con la ricetta locale, alla Festa del Baccalà. Appena entrati troneggia sulla parete un cartello che recita orgogliosamente "Noi parliamo italiano!", ma proprio mentre stiamo entrando ed osserviamo un enorme merluzzo dal fortissimo ed inconfondibile olezzo appeso al soffitto sviscerato ed essiccato, veniamo informati che il museo sta chiudendo. Abbiamo comunque visto abbastanza da ritenerci soddisfatti, del resto come si può rimanere delusi in un luogo simile?

Oceano

Esaurita la parte culturale, è il momento di dedicarsi a quella naturalistica. La baia del paese è una porta aperta sull’immenso Oceano Atlantico, che si estende coprendo completamente un territorio così tremendamente esteso da far fatica a comprenderlo. Seduto sull’ultimo spruzzo di roccia prima del mare, osservo l’orizzonte in uno stato di pace mentale assoluta, che forse mai ho vissuto così intensamente: il mare piatto quasi come una tavola mi distende completamente lo spirito ed elimina qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde con l’oceano all’orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico alternarsi delle debolissime onde amplifica questa sensazione, provo un’attrazione enorme per quella sconfinata distesa d’acqua. Non un rumore, né tantomeno quello delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte lasciandoci ascoltare il silenzio della natura. Un silenzio assordante, da far venire i brividi. Questo è quello per cui sono venuto qui, e ora che l’ho raggiunto, non potrei desiderare di più. Quando mi riprendo dall’estasi, decidiamo di salire sulle collinette di sassi e muschio che sovrastano il borgo: da quella posizione potremo vedere tutto in modo ancora più completo. In men che non si dica siamo in cima, in totale qualche decina di metri più su, e da lì possiamo goderci una vista nuovamente emozionante. Davanti a noi il paesino che dà sull'immenso Oceano Atlantico, alla nostra sinistra le imponenti montagne che lasciano in ombra buona parte della zona, sulla destra è appena visibile un campeggio in riva al mare, dietro di noi un verdognolo lago circondato dai monti, sulle cui rive due persone stanno facendo campeggio selvaggio in tenda, non senza suscitarci una punta d'invidia. E davanti a noi, di nuovo, l’oceano. Il tempo è perfetto, il sole ancora abbastanza alto nel cielo, possiamo concederci un’altra buona mezz’ora di rilassamento totale e di meditazione. Quello che si pensa in questi momenti non si può comunicare nelle pagine scritte di un diario. Quello che si può comunicare è che quando capita di viverlo, si può solamente essere grati a Madre Natura.

Pavel

Torniamo in ostello già rimpiangendo gli stupendi momenti appena vissuti, e vediamo che non c'è ancora nessuno in camera nostra, sembra quasi che ce l'abbiamo fatta a rimanere soli. Ormai sono le dieci, non verrà più nessuno, pensiamo. Sogni svaniti: dovremo condividere la stanza con un israeliano ventiseienne di nome Pavel, che arriva poco dopo di noi e da subito si rivela estremamente loquace, perfino invadente. Non la smette nemmeno per un secondo di farci domande di ogni tipo, con fare quasi sospetto. Scopriamo poco dopo che è entrato in ostello clandestinamente, con il sacco a pelo che è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi, e addirittura senza pagare. Non sembra comunque ostile nei nostri confronti, nonostante il suo comportamento poco ortodosso. Facciamo finta di niente ed aspettiamo che esca, ma dopo poco il richiamo serale di Å si fa sentire anche per noi: troviamo il nostro compare fuori dall'ostello che ci invita ad una passeggiata (ma praticamente ci costringe ad andare con lui!), e inizia a raccontarci le sue imprese di free climber, indicandoci la montagna di fronte a noi e sostenendo di essere in grado di scalarla in venti minuti senza aiuti di alcuna sorta, se escludiamo il gesso sulle mani per fare maggiormente presa. Siamo abbastanza scettici su questa sua ultima affermazione, nonostante il suo fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma non lo diamo a vedere, facendo solo una battuta scherzosa “Al massimo, duecento minuti!”. Poi parte a confrontare le temperature locali con quelle israeliane, spiegandoci che a casa sua oggi sarebbe una giornata invernale. Finisce col parlare di tutti gli italiani che ha incontrato in tutti gli ostelli che ha visitato finora, dicendo di non aver mai visto un ostello senza rappresentanti del Bel Paese. Tutto sommato è anche simpatico, ma parla decisamente troppo e non ci lascia il tempo di replicare qualcosa senza partire con un altro argomento. Continuiamo a camminare verso il promontorio, sono quasi le undici di sera ma la luce è ancora praticamente diurna, riusciamo perfino a fare qualche fotografia al mare che incontra il cielo rosato, con qualche gabbiano superstite che lancia il suo grido in mezzo al mare. La maggior parte di loro si è ormai ritirata sotto i tetti delle rosse case, dove si raccolgono a decine non smettendo un solo secondo di garrire. Beati loro che si godono questa meraviglia tutto l'anno gratis. Un altro momento meditativo di grande intensità: i colori del tramonto rendono ancora più bella la scena vissuta nel pomeriggio, sto altrettanto zitto per assimilare il più possibile la magia di quel momento, ma complici la logorrea di Pavel e il sonno optiamo tutti e due per andare a letto. Tornati in camera scopriamo che anche il quarto posto è stato occupato, per giunta da un italiano, che dopo averci salutato sparisce e non ne sapremo più nulla. Il nostro Pavel ci chiede informazioni su una linea ferroviaria, ricambiando poi dandoci in regalo una carta che mostra tutti gli ostelli della Scandinavia, in gran parte da noi già conosciuti, ma che comprende anche alcune novità che successivamente ci salveranno da situazioni difficili. Quando il compare si stanca di farci domande indiscrete e noiose possiamo finalmente dormire, pregustando già la giornata successiva, che abbiamo già un'idea precisa di come passare.

In bicicletta

Svegliarsi in quella stanzetta di legno minuscola, con la luce del sole che filtra timidamente dalle finestre chiuse solo con tendine semitrasparenti, è presagio di una giornata grandiosa. Non approfittare delle rare giornate di pieno sole che queste piccole zolle di terra ci stanno offrendo così generosamente è quasi un delitto. Completiamo velocemente il trasferimento di camera, giusto in tempo per riuscire a sfuggire al logorroico Pavel che si sta svegliando proprio in quel momento: il nuovo alloggio è molto più grande, ha il lavandino incorporato e il bagno vicinissimo, ma i materassi sono praticamente inesistenti: degli strati di gommapiuma poco più spessi di stuoie da spiaggia, cosicchè la schiena poggia quasi direttamente sulle dure doghe, decisamente scomodo ma tutto sommato sopportabile. La camera è quadrupla ma per ora siamo solo noi, magari almeno stavolta saremo graziati e non avremo compagni di stanza. Ma a questo ci penseremo solo la sera. Per la nostra giornata di esplorazioni l'ostello propone un servizio di noleggio biciclette per ventiquattr'ore, più che sufficienti a farsi un giro panoramico eccezionale. La parte sud delle Lofoten è infatti indiscutibilmente la più attraente e la migliore da percorrere miglio dopo miglio in sella ad una bicicletta. Al prezzo di poco più di venti euro, non economico ma sicuramente sostenibile, ci aggiudichiamo i nostri mezzi: sono delle scassate e apparentemente poco affidabili biciclette da città, probabilmente con molte migliaia di chilometri alle spalle. Sembrano proprio vecchie e malandate, ma non possiamo pretendere troppo, questo è quello che abbiamo. E poi l'entusiasmo di girare per le isole in bici ci fa presto dimenticare dei dettagli. Io non vado in bicicletta da parecchi anni e non sono mai stato una cima, Davide è un po’ più abituato a pedalare ma anche lui a digiuno da qualche anno: stiamo tentando l'avventura in condizioni di sottoallenamento decisamente pesante. Riprendiamo ad andare in bici nell'ultimo posto al mondo che ci saremmo aspettati fino a poco tempo prima, la situazione ha un che di paradossale.

La selezione dei mezzi è accurata: scartate le bici che frenano poco, quelle con i cambi di velocità troppo arrugginiti o addirittura assenti, quelle apparentemente un po’ sbilanciate, non troviamo di meglio che due biciclette costruite assemblando parti di altre bici diverse tra loro, come testimonia il cambio di velocità la cui levetta segna ben sette rapporti, quando in realtà le ruote dentate di cui dispongono sono solo due o tre. Partiamo lentamente ancora ignari di ciò che ci aspetta, freschi di energie…ma per poco. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e prive di buche, sono estremamente tortuose, si tratta di saliscendi continui e abbastanza ripidi, non durano molto ma per gambe poco allenate sono distruttivi. Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo ancora tutta la meravigliosa scena dell'andata, ma con la differenza che stavolta stiamo soffrendo non poco, io in particolare, per far andare quei rottami totalmente inadatti a un percorso simile su per quelle salite che paiono interminabili. Un attimo dopo si riprende velocità, giù per discese che finiscono quasi subito, lasciando ben poco riposo alle gambe. Il percorso è veramente massacrante, un po’ mi pento di aver spinto decisamente in direzione della gita in bicicletta, ma presto mi convinco che non si poteva non provarla, l’avremmo rimpianta troppo. Così stringo i denti e continuo a faticare su quella bicicletta con la mia penosa andatura, maledicendo ogni salita e benedicendo ogni discesa, consapevole che prima o poi arriverò ad una qualche destinazione. Mi distraggo cercando di non pensare che sono su una bicicletta, e in qualche modo continuo con la mia stentata pedalata.

La galleria

Nonostante la fatica e l’andatura a dir poco stentata, in men che non si dica percorriamo i quattro chilometri e mezzo che ci separano da Moskenes, il paese del nostro primo arrivo: ora è il momento di proseguire diritto verso altre mete, curiosissimi di vedere come siano queste isole in ogni loro parte. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un chilometro, come segnala il cartello posto all’entrata. A nessuno dei due è mai capitato di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci troppo a lungo. Le automobili che sfrecciano in galleria vengono preannunciate da un rombo fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di linea proprio di fianco a noi, rombo che poi rivela quasi sempre una semplice utilitaria lanciata a non più di sessanta chilometri l'ora, fatta eccezione per un solitario camion che crea una folata di vento abbastanza forte ma non così forte da farci sbilanciare. Un po’ di paura di sbandare per gli spostamenti d'aria dei mezzi che ci passavano di fianco c'è, visto anche il bordo della strada molto irregolare e ciottolato, vicinissimo alla linea di margine della strada. Per fortuna non succede alcun incidente ed usciamo indenni: quando rivediamo la luce del sole che aumenta sempre di più all'avvicinarci dell'uscita abbiamo davanti un'altra scena mirabolante. Il mare è in un bagno di sole, è ben visibile davanti a noi uno degli innumerevoli ponti che collegano tra loro le decine di isolette, con il suo aggraziato dosso sull'acqua. Nemmeno una nuvola sparuta in cielo e catene montuose sullo sfondo a perdita d'occhio, mostri emersi direttamente dall'oceano. Trovare questo clima alle Lofoten, col mare calmissimo, è una vera rarità. Ci accorgiamo solo ora della presenza di una pista ciclabile sulla destra, costruita apposta per non dover attraversare direttamente la galleria con le biciclette. Ma tutto sommato ci siamo divertiti molto di più a passarci in mezzo! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la pista ciclabile e imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva sinuosa che aspetta solo di essere solcata.

Reine

Le isole sono unite tra loro in modo così apparentemente precario da sembrare catene umane, tanto sono piccole: alcune sono niente più di scogli, su cui i ponti fanno presa da un lato per poi ripartire dall’altra parte delle rocce unendosi ad uno scoglio più grande, in uno spazio di poche decine di metri quadrati. In lontananza si vede chiaramente la cittadina di Reine, pochi chilometri più in là, sul più grande di questi “scogli” rocciosi con solo qualche rara collinetta erbosa. Le biciclette scendono veloci per l'inerzia della discesa permettendomi un breve riposo dopo la prolungata salita per arrivare allo svincolo, e presto siamo in quest'altro borghetto appena più grande di quello da cui proveniamo. Qui c’è un supermercato (si fa per dire), strade decisamente più larghe che ci permettono un buon margine di sicurezza per non farci investire dalle poche auto circolanti, e bancomat per il prelievo automatico delle tanto necessarie corone, che ci fa molto comodo per rifornirci in un momento di scarsa liquidità. Scopriamo però subito di essere rimasti quasi al verde: la macchina si rifiuta categoricamente di darmi anche la cifra minima prelevabile dalla mia carta. Pensiamo ad un guasto della carta prepagata, ma calcolando con più calma le spese e i prelievi finora effettuati, scopriamo che sono rimasto con poco più di dieci euro caricati, mentre Davide ne ha solo qualche decina in più! Alla faccia! Si fa presto a spendere fior di soldi qui in Scandinavia, nonostante le nostre spese siano ridotte quasi all’osso. Risolto il problema e dopo una breve sosta per riprendere fiato su una panchina isolata in mezzo a un ghiaioso cortile, ripartiamo alla volta di Hamnoy, la prossima tappa ancora un paio di chilometri più in là. Qui ci godiamo lo scenario più bello dell’intero arcipelago! I ponti si fanno innumerevoli, alcuni di cemento a più campate, altri dei semplici ammassi di roccia levigata sulla cima per permettere alle auto di passare, ma lasciata grezza e irregolare sulle pareti laterali. Non sono ovviamente disposti su una linea retta, ma a zig zag, e non potrebbe essere altrimenti data la natura tremendamente frastagliata ed irregolare di questi isolotti. Sui ponti spesso le automobili devono alternarsi da una parte e dall'altra per poter passare entrambe, da cui sono quasi sempre regolati da semaforo: nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare lunghe attese per passare da un appezzamento di terra all’altro. Il dedalo di vie di comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, la fatica si attenua notevolmente schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e roccia in mezzo all’oceano. In mezzo all'acqua scorgiamo degli strani recinti circolari di ferro verniciato di scuro, come delle piccole arene sospese, ma senza pavimento: c’è solo la ringhiera, all’interno c’è unicamente acqua, esattamente come fuori. Non si capisce bene come faccia a stare in piedi una struttura simile, né tantomeno riusciamo ad immaginare a cosa serva: forse sono punti di pesca per l'attacco delle reti, o chissà cos'altro. Deve per forza avere a che fare con la pesca dato che è praticamente l’unica attività che si pratica qui. Vediamo ancora riuniti numerosissimi i caratteristici tralicci di legno, mentre le montagne, sempre senza vegetazione o popolate da pochi fili d’erba stentata e fragili licheni, formano delle strette gole e insenature raggiunte dall'acqua in ogni punto. Solo in alcuni punti le pareti rocciose degradano in una gola a forma di U, che per quanto bassa non lascia però intravedere nulla al di là di essa. Alcune montagne hanno persino delle tracce di neve nelle zone che rimangono perennemente in ombra! La neve in estate su una montagna a livello del mare è uno spettacolo che, se non fosse straordinariamente suggestivo, sarebbe quasi grottesco. Questi giganti di roccia cingono i villaggi come delle muraglie insuperabili, quasi a proteggerli dalle intemperie del mondo esterno, che potrebbe spazzare via queste casette delle favole così facilmente se volesse.

Hamnoy

Man mano che passiamo da un ponte all'altro, fermandoci sempre più spesso per la stanchezza che ormai la bellezza dei paesaggi non può più sopprimere a sufficienza, arriviamo alla cittadina di Hamnoy, dislocata in modo a dir poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci reclamano qualcosa di commestibile, per cui cerchiamo un posto tranquillo dove poterci stravaccare a guardarci attorno in pace. Dopo un po’ di tentativi andati a vuoto ci fermiamo in una zona completamente rocciosa di fianco alla quale sono infisse una serie di case su palafitte, incastonate perfettamente nelle rocce lambite dall’acqua. Sono tutte case perennemente lasciate in affitto e al momento paiono disabitate, per cui possiamo permetterci di soggiornare fuori senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che intravediamo nell'acqua bassa della costa sono un'infinità, così come sono numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente dicendosi chissà che cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Il sole è quasi a perpendicolo sopra di noi, mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in quelle acque per rinfrescarmi un po’, idea subito accantonata non tanto per la mancanza del costume ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe succedere una volta uscito ed esposto al vento fresco ed incessante che ci sferza vigoroso. Mi limito a lavarmi le mani con l’acqua del mare, cercando di pulirle da quella specie di colla di cui è sporco il coprimanubrio sinistro e che mi sta tormentando da quanto è appiccicaticcio. Il tempo passa rapido mentre osserviamo ogni angolo di isola, cercando qualche sorpresa che ancora non avessimo notato. Non troviamo più nulla di eclatante, ma le Lofoten in sé sono già sufficienti per dire di aver passato una giornata veramente fuori dal comune!

Moskenes

Ormai ripresi dalla fatica della pedalata, ma non dai dolori alle gambe che sentiamo dopo i quasi venti chilometri percorsi, torniamo indietro per non rischiare di tardare troppo la sera. Siamo molto dispiaciuti dal dovercene già andare, ma torniamo comunque pienamente soddisfatti, è andato tutto liscio come sperato. Anche stavolta, come successe al Preikestolen, il ritorno è duro tanto quanto l'andata: tutti i saliscendi si sono semplicemente invertiti, per cui conservano intatta la loro difficoltà. Non basta certo un'oretta scarsa seduti su una panchina per rimettersi come nuovi, da cui riprendo a soffrire come prima. Sono così stanco che percorro praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi, le gambe non mi reggono quasi più non appena c'è da forzare un po’ sui pedali per superare una pendenza anche lieve. Sono scandaloso, lo so, ma non so cosa farci. Questa volta evitiamo le galleria prendendo le sterrate strade alternative, fiancheggiate da alberelli e percorse solo da qualche raro turista appiedato, per poi fare una sosta a Moskenes. Si rivela essere un buco più piccolo ancora di Å, con la chiesetta che funge da punto di riferimento alta solo pochi metri più del resto delle costruzioni. L’attracco per il traghetto conta ben otto corsie per le automobili, di cui tutte tranne una sono destinate ai veicoli e alle persone che tornano a Bodø, mentre la rimanente porta all’isoletta di Vadøy, poco più a sud. L'ufficio informazioni vende magliette delle Lofoten raffiguranti il sole di mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle strane bustine di stoccafissi rigidi come il legno, così asciugati da contenere ben ottanta grammi su cento di proteine pure. Molto nutriente e soprattutto molto sano! Una prelibatezza che in più protegge dalle diffuse malattie cardiache.
All’esterno invece c’è una bacheca con esposti gli orari dei bus e dei traghetti, unico luogo in cui possiamo avere informazioni, dato che di avere volantini da mettersi in tasca non se ne parla nemmeno. Informatici bene su come muoverci in giro per l'isola con il trasporto pubblico, rimane solo da completare il giro del promontorio. Passiamo lentamente in mezzo alle onnipresenti travi di legno fittamente intrecciate, alcune delle quali recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e probabilmente inutilizzabile.
Riprese ancora un po’ di forze, rifacciamo riprendiamo la via per Å. Ormai scendo praticamente per forza d'inerzia, non pedalo quasi più. Sono su un celerifero del 1800, quelli senza pedali, più che su una bici. Un memorabile scambio di battute tra me e Davide, durante una salita faticosa in cui stranamente sono rimasto in sella e abbiamo un fiatone pazzesco, è emblematico: "Ma come fanno quelli che fanno il giro d'Italia?" "Si dopano". "E quelli che non si dopano?" "Arrivano ultimi". Nella concitazione del momento queste poche frasi mi fanno scoppiare a ridere fragorosamente. Presto finisce questa agonia e stiamo nuovamente percorrendo le altalenanti stradine che conducono dritte al nostro alloggio.

Missione

Torniamo alle cinque e un quarto, scendendo lentamente nel centro del paese e posizionando direttamente le bici nei loro sostegni, non volendo averci più a che fare nemmeno per un istante più del necessario. Siamo distrutti dalla fatica ma largamente soddisfatti, e ritorniamo in camera per rilassarci il più possibile. Siamo ancora soli e lo rimarremo, nessun turista prenderà posto negli altri due letti quella notte. Possiamo finalmente lavarci e mangiare qualcosa. La sera siamo troppo stanchi per uscire, e passiamo il tempo a raccontarci del più e del meno e cercando di calcolare il calore irradiato dalla lampadina sopra di noi. Trovata la metratura cubica della stanza, calcolata partendo dalla capacità nota in litri dei nostri zaini, e il calore specifico prodotto dalla lampadina, possiamo dedurre a livello teorico che la nostra lampadina scalda di 6 gradi la temperatura della stanza ogni ora! Insomma un ottimo modo per far passare il tempo fondendosi il cervello inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello trovato all’ultimo minuto e non senza una lunga ricerca nella piccola cittadina di Svolvær, la capitale amministrativa delle Lofoten nonché città più antica del Circolo Polare Artico risalente all’epoca dei primi Vichinghi. Situata nella parte centrale della catena insulare e curiosamente gemellata con la nostrana città di Ancona, la preferiremo snobbando la ben più visitata turisticamente Stamsund. La ragione di questo diversivo è che a pochi chilometri da Svolvær si trova un piccolo ed insignificante villaggio di nome Kabelvåg, dove diverse decine di anni fa mio padre in viaggio per la Scandinavia come lo siamo noi ora incontrò una sua corrispondente radioamatrice come lui, di nome Laila, della quale non ha più notizie da circa una trentina d'anni. Tocca a noi ora tentare di riallacciare i contatti persi con la signora che sarebbe ormai settantenne, e coi figli Lars ed Erik ormai quarantenni, ammesso di trovarli e soprattutto di trovarli vivi. Il giorno successivo prenderemo l'autobus per Svolvær, preparandoci ad una solerte ricerca: tutto infatti in quel paesino è ormai cambiato, sia la geografia che le persone. Scivoliamo sotto il piumone, pensando alla giornata a venire e cercando di distogliere le percezioni dalla scomodità del letto, fino a passare nel misterioso ed interminabile mondo dei sogni, che oggi abbiamo potuto sondare senza doverci addormentare.

Svolvær

Come prevedibile, mi sveglio con un marcato dolore alla schiena, quel dannato materasso seppur imbottito con un piumone in più rubato al vicino letto vuoto non ha risparmiato le mie vertebre già non perfettamente sane. La partenza è fissata per le nove: il nostro pullman impiegherà circa tre ore e mezza per raggiungere la cosiddetta capitale amministrativa, che conta solamente 4.500 abitanti ma ha addirittura un aeroporto, tralaltro già presente ai tempi di mio padre.
Arriviamo con largo anticipo alla stazione dei bus, un enorme spiazzo asfaltato vuoto con un baracchino che funge da punto informazioni e biglietti, munito anch’esso di toilette a pagamento. Un sacco della spazzatura smembrato, probabilmente opera di qualche cane o gatto in cerca di cibo, ha riversato tutto il suo contenuto nella pensilina del bus, ma nessuno dei pochi presenti si cura di raccogliere i rifiuti, preoccupati tutti solamente di ripararsi dal freddo penetrante che si insinua in ogni angolo di pelle lasciato scoperto dalle giacche. Il cielo è molto più nuvoloso di ieri, oggi la gita in bicicletta sarebbe impensabile, troppo rischio di pioggia e soprattutto troppo freddo, senza l’ausilio del prezioso sole. Pagata la salata tariffa per il trasporto, ripercorriamo per l'ennesima volta la strada per Moskenes che ormai conosciamo a memoria, di aspetto lievemente mutato dal cielo coperto. Purtroppo è tempo di andarsene dal paese delle meraviglie.

Mentre costeggiamo l'oceano, finalmente liberi dal freddo e dal vento nel caldo ambiente del grosso pullman turistico, vediamo tantissime altre ringhiere circolari sospese come per magia in mezzo al mare, ma non un paio isolate, bensì in file di decine, tutte allineate. Di nuovo proviamo a immaginare a cosa possano servire e soprattutto come siano state costruite, ma non ci viene in mente nessuna spiegazione soddisfacente, da cui desistiamo e le rimuoviamo temporaneamente dalla memoria, riservando la curiosità a quando potremo informarci. Man mano che proseguiamo, la geografia e l'aspetto delle isole cambia radicalmente: le montagne cominciano a riempirsi di vegetazione superiore a muschi e licheni, il paesaggio da fiabesco si fa sempre più ordinario e più continentale, se vogliamo anche lievemente monotono, specialmente una volta abbandonata la costa per ripiegare nell'entroterra. I cartelli stradali a fondo verde, che qui non significano presenza di autostrade ma di strade ordinarie extraurbane, continuano a segnalare Svolvær lontano, lungo quelle strisce perfettamente asfaltate e vuote o quasi per decine e decine di chilometri. Aiuto il tempo a passare più in fretta rimettendo ancora una volta gli auricolari nelle orecchie e facendo scorrere un po’ di tracce nel lettore. Cerco sempre di conciliarle col paesaggio, scegliendo solo quelle più malinconiche ed evocative per accoppiarle alla perfezione con la natura e le condizioni atmosferiche. Le chitarre decadenti e tristi fanno tornare un po’ di nostalgia per il ridente paesino appena abbandonato, finchè un brano più deciso e potente risolleva il morale e mi ricorda che sto andando in missione, a cercare come un segugio questi vecchi amici con i quali mio padre tanto terrebbe a riprendere i contatti. Ce la dovrò mettere tutta per non deluderlo, anche se non mi è stato consegnato un ordine tassativo, bensì un semplice invito a fare questa ricerca se avessimo avuto tempo e voglia, non insistendo oltre nel caso che Kabelvåg fosse risultato difficilmente raggiungibile o lo fosse stato a costo una perdita di tempo non indifferente. Ma Kabelvåg è a due passi dalla nostra via, e io prendo l’incarico molto seriamente: quando mai mi ricapiterà di viaggiare in un posto così remoto potendo trovare delle persone che tanto tempo fa hanno avuto contatti con i miei parenti?
Mentre mi faccio tutte queste domande e mi pongo i miei propositi, è già ora di prepararsi: la piccola cittadina di Svolvær, anch'essa sulla costa e circondata da montagne stavolta verdi che formano un cerchio quasi completo, è segnalata a pochi chilometri dai cartelli stradali. Attraversiamo proprio Kabelvåg, che si trova esattamente sulla strada principale, cercando di carpire già qualche informazione, ma l'autobus passa senza fermarsi e non abbiamo modo di vedere quasi nulla, se non i lunghi cespugli di fiori viola che riempiono ogni angolo libero ai lati della strada.

L'arrivo a Svolvær è un po’ approssimativo: non sappiamo esattamente dove scendere, nè dove sia questa fantomatica piazza in cui dovrebbe trovarsi il nostro ostello, nè dove sia il punto informazioni, prima cosa da cercare in ogni posto nuovo che si raggiunge. Scendiamo alla fermata che ci sembra più centrale, riconoscendo quella che sembrava una piazzetta, scoprendo poi di aver mancato la fermata giusta: vagando per una decina di minuti in direzione stavolta indovinata, il punto informazioni finalmente appare, in una piazza molto più grande che dà direttamente sul mare. Un di punto di partenza per i traghetti appositi per la visita dei fiordi lofoteniani è presidiato da delle giovani bigliettaie in borghese che si guardano attorno speranzose di catturare qualche nuovo cliente, le bancarelle sono anche qui onnipresenti e gli uffici di cambio e banche in presenza consistente ci ricordano che siamo veramente in una piccola capitale. Preso il nostro numerino dalla macchinetta distributrice di turni, identiche a quelle che si vedono al supermercato, la ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega dove dobbiamo andare: lontanissimo da dove siamo adesso. Un interminabile vialone da percorrere a piedi prima di voltare a destra per attraversare un quasi altrettanto lungo ponte curvo, ma non in senso orizzontale, bensì in verticale: è piegato come da una forza invisibile lungo un'accentuata forma a volta che deve sicuramente essere stata più difficile da costruire rispetto ad un ponte piatto. Questa enorme lingua di asfalto, che assicura vertigini ai deboli d’orecchio essendo altissimo sul mare, sovrasta i moli dove le navi da container ancora chiuse nei cantieri aspettano di essere varate. Si intravedono in lontananza le numerose industrie ittiche che mandano avanti tutto il paese qui come nel resto delle isole, le montagne stavolta lasciano un po’ di terra tra loro e il mare, non più gettandosi a capofitto in acqua con la loro vertiginosa pendenza. Superata la parte in salita del ponte, mentre sudiamo abbondantemente con addosso i vestiti pesanti e gli zaini più pesanti ancora, la discesa sembra non finire mai: camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono sempre uguali.

Possiamo renderci conto chiaramente della natura della zona in cui andremo ad alloggiare: è un porto industriale, con serbatoi per la benzina e il gasolio. Decine di pescherecci sono ormeggiati, alternati a qualche nave mercantile, con un olezzo di pesce penetrante che si sente dappertutto. Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora per qualche centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un malandato edificio squadrato e scrostato della vernice. L’unica nota positiva è che contiene una camera a due solo per noi: per il resto il panorama che si vede dalla finestra è orrendo, in primissimo piano c'è una cisterna della Esso, non possiamo aprire la finestra senza che la stanza venga istantaneamente invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco e gasolio bruciato. I letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli, capelli e forfora, o chissà quale altra sporcizia non meglio identificabile, che evitiamo rigorosamente di toccare. I bagni sono in fondo alle docce, con ingresso unico, per cui se uno si sta lavando tutto l'ostello deve aspettare per andare a fare i suoi bisogni, un modo di progettare le stanze decisamente poco logico. Dobbiamo rimanere lì due notti soltanto, per fortuna. Le lenzuola ci verranno recapitate più tardi dal custode che ora non vediamo da nessuna parte, senza di esse non osiamo nemmeno sederci su quei letti sporchi all'inverosimile, quindi lasciamo la stanza per cercare gli orari dei bus che fermano a Kabelvåg.

Kabelvåg

Il paese è piccolissimo e non sembra disporre di edifici pubblici significativi, a parte un ufficio informazioni dipinto di giallino sbiadito, con numerose bandiere di varie nazioni appese al suo esterno. Ha l’aria di essere quello l’unico ostello che il paese ospita, ma che stando alle nostre informazioni e alle telefonate effettuate dovrebbe aver chiuso proprio ieri. Il paese, nonostante sia un luogo insignificante e pochissimo abitato, ha un aspetto comunque moderno, ben curato, ci sono un ristorante ed addirittura un punto di prelievo automatico soldi. Prima di raggiungere il centro vero e proprio cerchiamo il cognome della donna sui campanelli e le cassette della posta di tutte le case che incontriamo, tutte rigorosamente di legno e verniciate con colori vivaci, ma senza successo: sono pochi i campanelli che recano un nome, e quei pochi che leggiamo sono del tutto diversi da ciò che cerchiamo. Oltretutto mio padre non si ricorda nulla nè della via in cui si trovava la casa nè tantomeno della casa stessa, comprensibile dopo tutti questi anni, quindi siamo completamente soli nella nostra ricerca. In centro proviamo per prima cosa a chiedere all'ufficio informazioni dove sia il municipio in cui trovare l'elenco dei residenti. In attesa che qualcuno ci dia retta, notiamo diverse chiavi appese al muro, deducendo che quello è proprio il fantomatico ed unico ostello di Kabelvåg. Stranamente alcune chiavi mancano e ci chiediamo se veramente sia tutto pieno lì, ma non abbiamo il tempo di pensarci ulteriormente: il giovane commesso biondo posa il telefono e ci rivolge finalmente la parola. Dopo la domanda che gli faccio mi guarda con aria un po’ spaesata, sembra non capire esattamente cosa intendo, forse per via della mia richiesta un po’ tentennante ed incerta. Oltretutto non sappiamo quale sia la parola inglese che sta per municipio, da cui facciamo un po’ fatica ad intenderci. Sembra che siamo capitati nel luogo sbagliato e che lì non ne sappiano nulla, o forse non c’è nemmeno un municipio qui a Kabelvåg, da cui desistiamo e tentiamo la fortuna nel ristorante della piazza a fianco: essendo l'unico in tutto il paese, sarà sicuramente frequentato da tutti, e sarà quindi probabile trovare qualcuno che abbia almeno sentito parlare di lei, o che meglio ancora la conosca di persona. Il locale è ottimamente arredato e nulla lascia intendere che ci troviamo in uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo informazioni al barista, che si mostra molto gentile e disponibile radunando tutto il personale e cercando qualcuno che conosca quel nome. Le voci dei ristoratori si alternano tra loro incerte, le poche informazioni che riceviamo sono piuttosto contraddittorie e non molto chiare: l'unica che troviamo incoraggiante è che potrebbe essersi trasferita vent'anni fa nella vicina isoletta di Skrova. Non è nemmeno troppo distante, si può raggiungere con tre quarti d’ora di traghetto, ma nessuno sembra realmente convinto di quello che sta dicendo a proposito dei signori Wilhelmsen, ci invitano solo a provare, già che siamo qui. Ringraziamo tutti per la loro cortesia e disponibilità, ed usciamo dal ristorante un po’ scoraggiati ma non ancora vinti.

Incerti sul da farsi, tentiamo altre strade, trovando quello che sembra un piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio se conosca l'ubicazione del municipio del paese, cercando di farci capire con qualche espressione alternativa come “inhabitants list” o “administration”, ma anche lui ci indirizza all'ufficio informazioni appena visitato: in questo paesino evidentemente non c’è altro di importante. Decidiamo di tentare il tutto e per tutto, e di chiedere al commesso dell’ufficio direttamente il nome della donna, sperando che qualcuno la conosca. Il ragazzo stavolta si mostra molto più disponibile, anche se troppo giovane per poterci aiutare, avrà si e no trent'anni. Ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è ragionevole: ringraziamo e ci congediamo, nell'oretta che abbiamo da aspettare andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in pullman, che scopriamo poi essere la seconda chiesa in legno più grande della Norvegia. Esternamente colpisce molto lo sguardo, verniciata di giallino e marrone scuro, di aspetto squadrato ed austero, domina una vecchia baia ormai prosciugata dal mare e tappezzata di questi strani fiori viola che qui a Kabelvåg sono particolarmente numerosi. L'ingresso si paga venti corone ma non le vale effettivamente, dentro c'è poco da vedere. Usciamo presto, e Davide propone di cercare il camposanto: non è detto che la nostra Laila non si trovi lì. Lo troviamo subito, a pochi metri dalla chiesa, in mezzo ad un boschetto: come cimitero è decisamente grande per un paese così piccolo, ci dividiamo a cercare il nome sulle tombe, uno sull'ala sinistra e uno su quella destra, ma pur setacciandolo da cima a fondo troviamo solo un omonimia di cognome. Meglio così, almeno significa che la signora, seppur irreperibile, è viva. A meno che non sia stata sepolta altrove…

Torniamo in paese, ormai l'ora è passata e possiamo ritentare per l'ultima volta l'ufficio informazioni: questa volta ci sono due uomini, uno dall'aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i ricciolini a cascata su tutto il capo, l'altro dall'aspetto più giovanile, ma è quest'ultimo colui che ci viene presentato come l'esperto del luogo. Purtroppo tutti e due non conoscono nessuno con quel nome, l'uomo apparentemente più giovane prova anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio informazioni di qualche altro posto vicino o forse a qualche suo amico esperto della gente del luogo. Li sentiamo parlare nella loro lingua captando chiaramente solo i due nomi pronunciati, di lei e del marito Knut, che però cadono nel vuoto: nessuna informazione, nessun ricordo. Ci rassegniamo temporaneamente e ci sediamo in mezzo alla piazza a mangiare qualcosa, guardandoci attorno per scorgere qualche eventuale anziano che stesse passeggiando e a cui possiamo fare qualche domanda, confidando in qualche suo ricordo di tanti anni fa, ma non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa nessuno che possa aiutarci, solo qualche turista dall'aria distratta che passeggia per le anonime viuzze e presto scompare dietro l'angolo di qualche casa per non tornare più. L’unica signora che riusciamo ad individuare per il nostro scopo viene abbrancata da un gentile paesano che si offre di portarle le borse della spesa, prima che potessimo raggiungerla. I due iniziano a chiacchierare rumorosamente, da cui non ci sembra il caso di disturbare. Nisba. Oggi la fortuna sembra proprio averci voltato le spalle.

Attacco aereo

Tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili panini con la mortadella, richiusa con lo scotch per non farla andare a male troppo velocemente, e frugando nello zaino mi accorgo di avere ancora qualche cracker di riso che mi sono portato da casa per fronteggiare i momenti di fame acuta non soddisfabile da un vero pasto. Ne sono rimasti tre pacchetti quasi completamente sbriciolati. Dopo i canonici panini Davide ha ancora fame e si allontana qualche minuto a comprare un hot dog al vicino spaccio, io d'impulso penso di offrire i crackers come cibo ai numerosi uccelli che passeggiano per la piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole offerte loro da qualche generoso passante. Apro un pacchetto, stritolandolo prima tra le mani per polverizzare bene il contenuto, e incautamente ne getto un po’ a un paio di piccioni che mi stanno passando proprio ora vicino alle gambe: che idea malsana! In un attimo attiro una quantità impressionante di pennuti di ogni tipo, inclusi gli onnipresenti gabbiani, che in pochissimi secondi appaiono dal nulla e si fiondano sul cibo litigando e beccandosi tra loro. I volatili presi da frenesia alimentare si ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono temerariamente sopra, scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di merende, che tocca l’apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un sacchetto di altri crackers salati lasciato imprudentemente aperto sul tavolo, scende in picchiata e fa razzia del cibo prima che possiamo avvicinarci per recuperarlo.
Davide mi guarda con aria indescrivibilmente seccata, vorrebbe uccidermi per quello che ho combinato, ma io non riesco a far altro che ridere. Non riusciamo a scacciare tutti quegli uccelli, hanno troppa fame per andarsene, e anche quando hanno finito di beccare anche l'ultima briciola rimasta non se ne vogliono andare, riconoscendomi come quello che li ha foraggiati prima e seguendomi nei miei spostamenti ovunque mi trasferisca. Siamo quindi costretti a traslocare di tavolo, mentre io uso gli altri pacchetti di cracker come esca lanciata sempre più lontano per attirarli nella parte opposta della piazza. Con questo simpatico diversivo si conclude la nostra infruttuosa missione a Kabelvåg, che abbandoniamo pochi minuti dopo.

Rinnovata speranza

Un po’ delusi dal fallimento della spedizione, siamo ancora ignari su come spenderemo il terzo giorno dedicato alle isole Lofoten. La gita sul fiordo viene presto scartata quando veniamo a conoscenza del suo prezzo: quarantacinque euro sono troppi per un paio d'ore di qualcosa che comunque siamo già abituati a vedere da parecchi giorni, per cui cerchiamo un'alternativa, ma non è esattamente facile trovare piani alternativi in un posto del genere. L'ufficio informazioni ci viene in aiuto quando ormai siamo proprio disperati e senza idee, essendoci resi conto che le poche attrazioni visitabili che ci sono nei dintorni non sarebbero raggiungibili per penuria di bus nel fine settimana. Ci viene consigliata una puntatina di una giornata all'isola di Skrova, proprio quella indicataci dai ristoratori come il posto in cui cercare Laila, assicurandoci che è in ogni caso un posto carino dove passare un pomeriggio. Vada per Skrova. La ricerca dunque non è ancora finita, qualche tenue speranza si sta riaccendendo, l’ultima fiammella superstite prima del soffio definitivo che ancora ignoriamo se stia per arrivare o no.
La mattina successiva ci alziamo molto presto per prendere il primo traghetto, che in tre quarti d’ora dovrebbe trasportarci su questo minuscolo appezzamento di terra e roccia al largo della costa, che vive interamente di pesca e caccia alle balene. Solo qualche rotatoria stradale e galleria da percorrere, stavolta a piedi, fino al porto: non vediamo anima viva che sta aspettando quel traghetto che dovrebbe partire da lì, cominciamo a preoccuparci e a pensare di aver sbagliato qualcosa, ma i cartelli non possono sbagliare e con chiarezza inequivocabile indicano il punto di partenza proprio lì, in quello spiazzo completamente deserto. Quando la nave lentamente si accosta e si apre per lasciar salire passeggeri e veicoli, la verità è presto svelata: siamo gli unici due temerari che quella mattina vanno all'isola. Senza di noi partirebbe vuoto. Imbarazzante, ma tutto sommato è divertente avere una nave tutta per noi, con i bigliettai e manovratori che ci guardano come bestie rare, probabilmente non ne vedono molti salpare a quest'ora per raggiungere un posto così deserto. Dopo queste premesse non possiamo fare a meno di chiederci che razza di isola misteriosa sia questa, i cui traghetti sono così desolatamente vuoti. Il battello si fermerà a Skrova per poi ripartire e raggiungere un’altra isoletta simile ma ancora più piccola, denominata Skutvika. Speriamo per i marinai e macchinisti che almeno ci sia qualcun altro da caricare più avanti, perchè far partire dei traghetti completamente vuoti non deve essere molto soddisfacente, anche se si viene pagati per farlo.

Skrova

All'arrivo a Skrova troviamo il minuscolo porto completamente deserto, con un singolo punto di attracco per le navi e un'altrettanto singola corsia per il carico dei veicoli, anche loro assenti. Appena messo piede a terra e lanciato un'occhiata circolare a quel che vediamo del paese, capiamo subito di essere capitati in un vero e proprio villaggio fantasma: nessuno in giro, silenzio di tomba, tranquille casette con giardino ben tenuto tutte con le tende tirate, due panchine in croce dalla curiosa forma a stella nella minuscola piazza adiacente al molo, un unico alimentari che apre alle dieci di mattina, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata. Detto così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere: sarà grande si e no come un minuscolo bar di provincia, suscitando non pochi sorrisi e commenti da parte nostra. Questa è Skrova, e nulla di più: nonostante la desolazione che si avverte nell'aria, ha una sua attrattiva: mi affascinano sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo. Delle volte sogno perfino di abitarci, per sfuggire al mondo a cui sono abituato, così comodo ma anche così artefatto.
Skrova è inoltre popolata da tantissimi gatti: ne vedremo almeno una decina nella giornata che passeremo lì, stupendi felini notevolmente pelosi e altrettanto pesanti, con le zampe forti e muscolose indispensabili per cacciare le prede che si nascondono nei fitti ed estesi boschi norvegesi. Per questi animali deve essere un paradiso vivere qui: hanno tutto il pesce che vogliono e la probabilità di essere investiti da un'automobile, la loro più acerrima nemica senza odore nè respiro, è prossima allo zero.

In questi stretti e polverosi viottoli vediamo un paio di vecchie automobili, che in Italia non circolano più da decenni, entrare pigramente in qualche stradina secondaria, sbuffando e traballando sotto il peso di qualche mobile caricato nel capiente bagagliaio. Poi un anziano signore che aspetta che la locale Coop apra per andare a comprare il pane della mattina (confezionato, perchè di pane fresco non se ne parla, a meno che lo vendano da qualche altra parte). Una delle poche persone che incrociamo è una giovane signora con gli occhiali da sole che ci riconosce subito come turisti, e vedendoci vagare senza meta girando la testa qua e là cercando qualcosa di anche solo vagamente stimolante, ci offre il suo aiuto. Rispondiamo di non avere bisogno di particolari indicazioni (per dove, poi?), ma approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l’introvabile signora Laila che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi trasferita qui, lei scuote il capo ma si offre di provare a chiedere alla gente del posto: ci conduce in un punto dove è seduta una signora decisamente attempata, con una rosa di capelli grigi, a giudicare dalla sua pelle ha come minimo novant'anni. Si parlano un po’ in lingua locale, ma niente: l'anziana donna ha vissuto qui da sempre e non ha mai conosciuto nè sentito parlare di nessuno che si chiami in quel modo. La ricerca finisce ufficialmente qui, è ormai chiaro che queste persone non le troveremo mai.

Il giro dell’isola

Cosa ci rimane da fare, a parte la spesa nel minuscolo negozietto dal tanto famoso marchio? L'unico interesse dell'isola è quello naturalistico, che è anche il nostro principale interesse dell’intero viaggio, da cui ci impegniamo nel completare il giro dell'isola. Inizialmente vogliamo tentare la scalata alla montagna più alta dell’isola, nulla di che ma un punto perfetto per ammirare il panorama. Sbagliamo però strada, e ci troviamo sul percorso del giro a 360°, da cui decidiamo di proseguire per quella via. Delle banderuole arancioni penzolanti da dei pali di legno infissi saldamente nel terreno ci indicano la strada in modo abbastanza regolare, un momento ci troviamo nel sottobosco tra gli alberi che ci coprono come in un tunnel, un altro momento siamo sulle rocce ricoperte interamente da muschi, licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio disponibile, in un altro ancora siamo in riva al mare su dei massi enormi pieni zeppi di conchigliette portate dalle onde che da millenni bagnano queste coste immacolate o quasi. Il silenzio è completo, rotto solo dall'incespicare dei nostri passi su una roccia un po’ scivolosa o instabile, oppure dal muschio secco e dalle eriche calpestate che crepitano e ci riempiono le scarpe di fastidiose spine. Ogni tanto mi devo fermare a toglierle, quando mi sembra di camminare su un letto di chiodi.

Il fascino di quell'isola così selvaggia e incontaminata è notevole: sul suolo crescono innumerevoli mirtilli e bacche rosse opache non meglio identificabili, forse ribes ancora immaturi. Le particolari sostanze nutritive depositate ivi dall'acqua creano un ambiente in cui riescono a vivere rigogliose delle specie di piante che alle nostre latitudini crescono solo in alta montagna e in precario equilibrio, un altro aspetto peculiare delle sfaccettate Lofoten. Non ce n’è, queste isole hanno davvero qualcosa di speciale. Cespugli di splendidi fiori molto simili ad azalee spuntano ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti dalle foglie rosse ed arancioni che costeggiano intere parti di sentiero. A volte intralciano anche un po’ il cammino con i loro rami tesi che rimbalzano all'indietro colpendo il successivo escursionista se non sta alla distanza di sicurezza adeguata. Ogni tanto qualche buca piuttosto profonda in mezzo al sentiero mi fa sussultare proprio mentre sto per posarci il piede sopra: nascosta dai lunghi fili d’erba che si piegano su di essa come a proteggerne l’entrata, metterci il piede sopra significherebbe sprofondare con buona parte della mia statura, quasi sicuramente insozzandomi di fango creato dai torrentelli che ogni tanto si sentono scorrere. Questo succede più di una volta, ma dopo la prima sto molto più attento ed evito agevolmente le successive buche. L'unico rumore è quello del vento oceanico e delle risacche che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di anni, in un avanti e indietro che è sempre stato e sempre sarà: per il resto tutto tace. Sentirsi così profondamente in contatto con la natura è un'esperienza bellissima ed estremamente gratificante, che purtroppo oggi capita raramente di vivere appieno. Siamo completamente soli: non si sente nessun fastidioso vociare, nessun commento inutile, nessun cicaleccio sovrabbondante. Di fronte a noi qualche isoletta ancora più piccola, costituita unicamente da rocce coperta da muschi e licheni, stavolta completamente disabitata e visibile in ogni sua parte, fa la sua bella figura in mezzo al mare, indisturbata dalla presenza umana.

Proseguendo lungo la costa della collina, sbarrata dalle rocce e impossibile da percorrere ulteriormente, il sentiero muta bruscamente in roccioso e tortuoso, virando verso l’alto, decisamente ripido: più volte perdiamo la strada e finiamo dentro i cespugli spinosi, che scricchiolano sotto i nostri piedi come il vetro sottile di lampadine infrante in mille pezzi, facendoci sprofondare in un equilibrio costantemente instabile fino all'ultima salita. Dobbiamo salire per dei gradini scavati nella roccia molto faticosi da superare, che creano delle piccole grotte dove un esploratore in difficoltà potrebbe passare una soddisfacente notte al riparo. Finalmente in cima la visuale si riapre sulla vallata sottostante: il paese appare così piccolo e insignificante da lassù, ancora più di prima. Una bianchissima spiaggia sulla destra unisce come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i piedi con un'altra più piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette bianche, apparentemente ben tenute e per nulla diroccate come ci si potrebbe aspettare. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi esclusivamente rocciose, che solo in pochi punti si apre per consentirci la vista del mare che si estende oltre, ed è sovrastata da nuvoloni grigi che però non riversano nemmeno una goccia d’acqua. Una breve sosta sul crinale, per poi ridiscendere per un sentiero ancora più difficile, fatto di continui salti tra una roccia e quella sottostante, abbastanza bassi da poterli superare con un balzo e abbastanza alti da farsi male ai piedi atterrando con tutto il peso in una volta sola. Scivolando ed incespicando raggiungiamo di nuovo il sentiero battuto, fiancheggiato dall’onnipresente vegetazione del sottobosco. Un grande sollievo per i nostri piedi imprigionati dentro delle scarpe ormai sempre più consumate, le mie tralaltro sono completamente inadatte alle camminate su questo tipo di terreno, essendo fatte di tela flessibile e dotate di suola troppo bassa. Il giro dura poche ore, ma è molto intenso: i luoghi deserti e silenziosi come questo sono un toccasana per me. Anche questo è un altro posticino candidato ai miei giorni di pensionamento, che ora per fortuna sono ancora molto lontani.

I gatti

Abbiamo ancora diverse ore da passare a Skrova, prima che l'unico traghetto disponibile venga a recuperarci intorno alle sette e mezza, per cui dobbiamo inventarci qualcosa da fare, a parte mangiare le vivande della piccola Coop. Ritornando in piazza trovo un bellissimo ma non molto socievole esemplare di gatto delle foreste norvegesi puro al 100%, talmente peloso da sembrare un peluche fuori misura. In un impeto di sconsiderato ottimismo lo sollevo, esponendomi al rischio di graffiate, ma la bestiola sembra starsene tranquilla. Pesa parecchio! Davide mi scatta una foto mentre lo tengo saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la foto è stata impressa sul rullino il gatto si libera dalla presa con una mossa improvvisa e scappa. Questo si chiama tempismo!

Ad un’altra estremità dell’isola troviamo solamente quello che sembra un faro ma poi si rivela un centro di controllo per i cavi dell'alta tensione, che qui scorrono in parte appesi ai tralicci e in parte a terra, ben isolati in mezzo al sentiero battuto che poco prima abbiamo percorso. Lungo la strada non resisto al fascino di uno scivolo e di un'altalena, tra la benevola disapprovazione del mio compare che si rifiuta categoricamente di salirci. Tornando dopo poco nella piazza principale, in cui qualche essere umano come noi stavolta c'è, ci sediamo involontariamente a fianco di un nido di vespe, della cui presenza però ci accorgiamo dopo svariati minuti, quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con dei sassolini. Gli insetti visibilmente innervositi cominciano ad uscire uno dopo l’altro vorticando rabbiosamente attorno al nido, abbiamo paura che possano prendersela con noi. Stiamo per sbaraccare e spostarci da un'altra parte, ma le vespe si calmano presto, e possiamo continuare le nostre partite di briscola senza danni. Quando siamo stanchi di trafficare con cuori e picche, facciamo un giro anche nell’ultima parte del paese, seguendo la costa: vuota e smorta anche questa zona (che novità!), sembra proprio un villaggio abbandonato da Far West americano, se non fosse per dei simpaticissimi gattini di pochi mesi che non hanno paura di noi e hanno solo voglia di giocare un po’. Si fanno anche prendere in braccio, sono veramente teneri, come tutti i cuccioli di qualsiasi animale. Quando iniziano a rincorrersi tra di loro infilandosi nelle siepi e nelle pallide staccionate delle case, li lasciamo divertire e proseguiamo per il polveroso viale, trovando macchine parcheggiate vecchie come minimo di trenta o quarant'anni, più dei grossi blocchi di cemento e travi di ferro abbandonati sulla riva. Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia e centinaia di questi esemplari tingendo di rosso gli oceani e rischiando di causarne l'estinzione, indifferenti alle pressioni internazionali.
Ormai un po’ stufi di girare per quelle stradine deserte, ce ne torniamo in piazza, per essere pronti all’arrivo del traghetto. Chissà se ancora una volta sarà vuoto. In piazza assistiamo a delle animate lotte di territorio ingaggiate da altri tre felini autoctoni, che si rincorrono e si punzecchiano come dei bambini per decidere chi tra loro avrà il dominio di quella zona. Ci divertiamo ad osservarli mentre si scrutano prudentemente dalle loro posizioni di guardia, ogni tanto facendo qualche piccolo scatto per poi muoversi in tutt’altra direzione, da veri tattici di guerra. Ancora una volta, i gatti sono gli animali più belli ed affascinanti del mondo.

Strano essere

Finalmente vediamo in lontananza una piccola nave arrivare: i pochi turisti si avvicinano tutti al molo, noi inclusi, e sentiamo ancora una volta frasi pronunciate in italiano, stavolta in puro dialetto napoletano. È una vera persecuzione. Dal traghetto, lentamente accostatosi al molo, scendono stavolta parecchie persone, che probabilmente sono di ritorno da Skutvika. Se all'andata avevamo l'imbarazzo della scelta per sederci, al ritorno i posti sono pochi e preziosi, e per le nostre gambe stanche ora sono assolutamente necessari. Da cui ce ne accaparriamo velocemente due, custodendoli gelosamente fino all'arrivo a Svolvær. Appena sbarcati facciamo la spesa per i giorni successivi in un grande magazzino, dato che non vedremo più per qualche giorno un ostello o un locale dove mangiare. Arriviamo proprio mentre stanno chiudendo, riusciamo a fare la spesa al volo. Mi metto a cercare febbrilmente le bustine di stoccafisso, presto usciremo dal Paese e probabilmente non ne troverò più, è l’ultima occasione che mi si presenta di provare questo tipicissimo prodotto. Per quanto giro il supermercato, non le trovo: tuttalpiù veniamo più volte in contatto con un essere umano di dubbia provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono sott’olio, i vestiti stracciati e una bottiglia vuota in mano, che si aggira per il supermercato sbuffando e facendo strani versi a chiunque involontariamente gli si pari davanti. Sembra che sia convinto di essere su un altro pianeta dall’espressione che ha negli occhi pericolosamente infossati, dimostra settant’anni ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta. Mi inquieta un po’, continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco a me, anche se dopo i primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non curarsi più della mia presenza. Affrettandomi a finire la spesa per liberarmi il prima possibile del curioso personaggio, all'ultimo riesco a trovare le bustine di stoccafisso! Appena pagato dobbiamo subito uscire in fretta e furia: incalzati dagli inflessibili commessi che non possono ritardare nemmeno di un minuto a chiudere l’ipermercato, finiamo sotto la pioggia che guarda caso inizia anche lei a cadere proprio in questo momento. Dello strano personaggio fortunatamente non v’è più alcuna traccia. Il ritorno con addosso i kee-way e le borse della spesa da tutte le parti è lungo e noioso, ma termina anche lui e possiamo finalmente dormire la nostra ultima notte nel nostro buco di ostello. Per cena tento di mangiare lo stoccafisso così come l’ho comprato, peccato che non riesco nemmeno a staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro! Ha la consistenza di un pezzo di legno. Solo una volta a casa scoprirò che andava cucinato a dovere prima di poter essere commestibile. Ora si dorme: domani si riparte alla volta di Narvik, uscendo definitivamente dalle lande norvegesi per non più ritornarvi. Lande che ci hanno regalato grandissime emozioni e degli splendidi ricordi che ci porteremo dentro per sempre.

Addio Norvegia!

Ci attende una giornata intera in movimento, per raggiungere il nostro punto di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå. Anche in questo caso non abbiamo informazioni di alcun tipo su di essa, né tantomeno su questo fantomatico ostello ivi presente, che non riusciamo a contattare per telefono e del quale non conosciamo nemmeno l'indirizzo. Dovremo andare un po’ alla cieca, sperando in un pullman notturno che ci porti immediatamente in Finlandia. Se va tutto male, dormiremo in stazione, sempre sperando di trovarla aperta.
La mattina ci alziamo fin troppo presto, abbandonando con soddisfazione il puzzolente ostello, per prendere il bus che ci riporterà sul continente fino a Narvik, distante qualche centinaio di chilometri. Essendo domenica, non c'è assolutamente nessuno in giro nè niente di aperto, nemmeno il più grande dei supermercati. La luce è già forte, ma la cittadina dorme ancora, sembra proprio che non si voglia svegliare. Le uniche cose che si vedono muoversi sono le cartacce per terra che si spostano di qualche centimetro sospinte dal vento, due solitarie automobili cariche di persone che passano lentissime ed incerte lungo il larghissimo vialone per poi scomparire, e null'altro. Mentre aspettiamo, camminando su e giù per il marciapiede della nostra fermata, cerchiamo di distogliere i nostri pensieri dalla preoccupazione per la nottata che ci attende, ma l'attesa è lunga e i pensieri sono difficili da controllare. Non siamo nemmeno sicuri di riuscire a prendere la nostra coincidenza una volta a Narvik, anche se sappiamo bene che sia i bus che i treni scandinavi sono spesso in perfetto orario. La malinconia per il dover lasciare la Norvegia si fa sentire molto forte, e ci accorgiamo di aver avanzato più di trecento corone che non abbiamo idea di come spendere. Una vera seccatura poichè nè in Svezia nè in Finlandia le accetteranno più, costringendoci a cambiarle con tassi di interesse assolutamente imprevedibili. L’autobus arriva finalmente a prelevarci, dopo che abbiamo per un attimo pensato di non vederlo più arrivare. Avendo scoperto giusto il giorno prima che il biglietto interrail ci garantisce lo sconto del 50% sugli autobus delle Lofoten, stavolta paghiamo considerevolmente meno. Un peccato non averlo scoperto prima quando dovevamo arrivare a Svolvær, ma pur sempre meglio tardi che mai. Ci mettiamo comodi per il lungo tragitto che ci aspetta: arriveremo più o meno per le due e mezza. Il paesaggio della parte più a nord delle Lofoten non è più nulla di particolare: bello da vedere sì, ma tutto sommato abbastanza piatto, quasi continentale. Le montagne sono molto simili a quelle nostrane, ricoperte di vegetazione ormai quasi completamente, vi sono pochi tratti sull'acqua degni di nota, e tanti anonimi svincoli stradali. Continuamente sballottati in mezzo a tutte queste curve, passiamo il tempo ancora una volta con un po’ di sana musica nelle orecchie, fedele compagna che non tradisce mai.

Narvik

Dopo sei ore di pullman siamo di nuovo nella Norvegia continentale. I ponti che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci permettono di non dover più prendere mezzi navali sono relativamente recenti: quando mio padre decenni fa era qui non esisteva niente di tutto ciò. L’ultima striscia di asfalto e cemento sospeso che ci unisce alla terraferma è lunghissima, il ponte appare molto moderno. La cittadina di Narvik è ancora oggi relativamente importante, famosa per essere stata pesantemente bombardata dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale per accaparrarsi il ferro ivi prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante tutta questa storia alle sue spalle, la sua stazione è letteralmente un buco: piccolissima, deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della biglietteria sono chiuse e non c'è nulla che presagisca che si debbano aprire nel pomeriggio, probabilmente a causa della chiusura domenicale. Ma a chi arriva e deve partire proprio quel giorno nessuno ci pensa? E se non avesse il biglietto già pronto? Fortunatamente il nostro fidato cartoncino dell'interrail è pienamente valevole per un treno come quello diretto a Luleå, che non necessita di prenotazione anticipata non essendo particolarmente importante nè con i posti preventivamente assegnati. Il tabellone per le partenze è decisamente mal progettato: mostra gli orari in modo un po’ confuso, per poi lasciare il posto a minuti e minuti di informazioni pubblicitarie che non servono a nessuno, costringendo chi sia arrivato proprio in quel momento ad una lunga attesa per sapere quando arriverà il suo treno. Siamo comunque in orario, possiamo metterci comodi ed addirittura usufruire dei bagni senza pagare nemmeno una corona, una vera rarità qui in Norvegia. Crollano tutte le speranze di riuscire a spendere almeno una parte del denaro locale residuo: dentro e fuori dalla stazione non c'è assolutamente nulla, nemmeno uno straccio di chiosco che venda giornali o caramelle, niente. L'unica cosa in cui troviamo da spendere soldi è un telefono pubblico, che tentiamo di utilizzare per chiamare nuovamente l'ectoplasmico ostello di Luleå, ma ancora una volta il numero non è funzionante e il telefono per giunta ci mangia le venti corone che gli abbiamo regalato per farci fare la telefonata. Non è la prima volta che il telefono pubblico ci mangia i soldi, e iniziamo ad essere stufi. Farsi fregare da una macchina non è esattamente il modo migliore di buttare via i risparmi, da cui accantoniamo per sempre i telefoni pubblici, fidandoci solo del cellulare.
Mentre mi guardo intorno seduto su una delle panche all'interno, un viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone che facciamo tutti fatica a interpretare si avvicina timidamente per chiedermi qualche informazione su come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver decifrato le partenze purtroppo sono costretto ad informarlo che il suo treno è già partito la mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un po’ più su. Dalla sua espressione capisco che c’è chi sta peggio di noi in quanto a spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo sì il treno pronto, ma niente di più, nessuna informazione sulla destinazione e tantomeno certezze. Davide trova un elenco telefonico della zona abbandonato sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora Laila: scorrendo le pagine piene zeppe di nomi di abitanti di tutte le Lofoten incontriamo due omonimie esatte, una di lei e una del marito. Le comunico ai genitori a casa, ma si rivelano abitanti di Narvik che non hanno nulla a che fare con le persone che stiamo cercando.
Le speranze di trovarli, distrutte e ridestate tante volte, crollano ora definitivamente.

Svezia

Il treno che arriva poco dopo ha le carrozze specificatamente divise per destinazione. Alcune si staccheranno a metà strada e proseguiranno in un'altra direzione: una sola di esse ferma a Luleå, qualche altro centinaio di chilometri più a est. Per raggiungerla ripasseremo di nuovo dal Circolo Polare Artico, abbandonando le terre del sole perenne per non tornarvi più. Prendiamo posto liberamente sulla carrozza, il controllore valida i nostri biglietti stupendosi che non parliamo svedese (non si nota che siamo italiani?), e possiamo finalmente dare l'ultimo vero saluto alla Norvegia. Dopo una mezzoretta dalla partenza la voce del capotreno amplificata dall’altoparlante ci informa che abbiamo oltrepassato il confine e stiamo entriamo nella ben più vasta Svezia. Qui il paesaggio è decisamente diverso da quello a cui siamo ormai abituati. I fiordi e le maestose montagne onnipresenti lasciano spazio a delle interminabili foreste di conifere alternate a betulle nane, talmente regolari che sembrano una piantagione più che un bosco. Ogni tanto qualche grossa montagna rocciosa si intravede, raramente qualche palude e fiumiciattolo, nel complesso è tutto decisamente monotono. Vediamo altri due arcobaleni, affascinanti come sempre, in qualunque posto e condizione li si osservi. Che sia anche questo un presagio di quanto di buono ci aspetta in territorio svedese?
Nella sterminata campagna che attraversiamo stanno girando stancamente delle pale eoliche, con un variopinto tramonto sullo sfondo che non può non emozionare anche il più insensibile dei viaggiatori. Per vederlo dobbiamo girarci continuamente, ma a costo di farmi venire il torcicollo non posso perdermi lo spettacolo. Stento a credere che quel gioco di colori sia dovuto unicamente al pulviscolo atmosferico che devia i raggi solari tingendo di rosso e arancione il cielo. Riconosco che è l’espressione palese di una potenza nascosta ed onnipresente, che non siamo in grado di indagare ma che lancia segnali così inequivocabili da non poter essere ignorati.
Incrociamo un'industria di legname, anche qui come in tutta la Scandinavia particolarmente grandi e diffuse, essendo il commercio del legname una delle principali forme di sostentamento e di creazione di posti di lavoro. Centinaia di tronchi grezzi ammassati assieme, in attesa di essere lavorati e trasformati ora in una sedia, ora in una scarpiera, ora in una scrivania. Probabilmente abbiamo tutti in casa qualcosa che proviene dalle foreste nordiche, dato l'enorme sfruttamento delle zone boschive. Treni merci interminabili solcano lentamente le rotaie in direzione opposta alla nostra, ci divertiamo a contare il numero dei vagoni, il più lungo ne ha ben sessantotto, di forma triangolare che mi ricorda molto i classici vagoni per il trasporto del carbone. La disarmante ma affascinante monotonia del paesaggio rallenta l'incedere del tempo, nonostante stiamo sfrecciando molto velocemente sulle rotaie. Il mistero del tempo, così uniforme per un osservatore insensibile alle vicende umane e così mutevole quando vissuto nella dimensione dell'anima, è un altro che temo non verrà mai compreso.

Luleå

Alle undici, ora del nostro arrivo, c'è ancora una discreta luce. Prima rivelazione poco incoraggiante è che la stazione dei treni è irrimediabilmente chiusa. Dobbiamo scendere e fare il giro per uscire immediatamente dal perimetro della stazione, prima che chiudano anche i cancelli. La poca gente che è scesa insieme a noi dalla carrozza si allontana in tutte le direzioni, disperdendosi nelle strade. Rimaniamo solo noi due, probabilmente gli unici senza una sistemazione sicura. La nostra prima priorità è in ogni caso quella di trovare un autobus notturno che ci porti subito ad Haparanda, al limite tra la Svezia e la Finlandia: un buon colpo di fortuna ci permetterebbe di percorrere più strada possibile in meno tempo, e non meno importante, di avere un posto comodo e al caldo su cui dormire. Purtroppo apprendiamo subito che anche la stazione dei bus ha le porte bloccate da robuste serrature e riaprirà solo la mattina seguente alle sei e mezza. È tutta illuminata all'interno con le sue panche di legno vermiglie, stranamente divise dal bracciolo sulla due terzi invece che a metà, ci sono delle verdissime piante ornamentali che fanno la loro bella figura e i tabelloni interni sono quasi sgombri da informazioni. Quello esterno alla stazione segna solo pochissimi autobus, per giunta in arrivo e non in partenza da essa, ognuno a mezz’ora circa di distanza dall'altro. Mentre aspettiamo che l'automezzo arrivi così da chiedere informazioni all'autista sulle partenze imminenti o alla peggio su un eventuale ostello o albergo a buon prezzo nelle vicinanze, comincio a preparare la panca per la notte in stazione ormai più che probabile. Allestisco solo un posto, dovendo uno di noi rimanere sveglio a turno per fare la guardia: nonostante la stazione non appaia come una zona malfamata e abbiamo addirittura la stazione della polizia dall'altra parte della strada a non più di trenta metri da noi, è meglio essere prudenti. Stendo asciugamani, giacche, vestiti inutilizzati e qualsiasi cosa che possa rendere più morbida la panca, ma con scarsi risultati: sdraiandomici sto scomodissimo, il braccio sinistro non ha spazio vitale e per stare minimamente comodo dovrei tagliarmelo via. Tutte le panche sono conformate così, da cui anche cambiandola non otterrei miglioramenti. Oltretutto i dolori nelle zone di appoggio non tardano a farsi sentire dopo appena qualche minuto. Passano più volte sulla strada un paio di sbandati a bordo di un rumorosissimo motorino, poco distanti da noi. Urlano ed aprono il gas completamente, facendo un baccano infernale. Li maledico apertamente per avermi ridestato mentre stavo forse trovando la posizione giusta per addormentarmi, ma per fortuna svaniscono anche loro per le strade della città, senza più ritornare. Mentre decido di rinunciare al mio proposito di dormire su quell'asse di legno, arriva il primo autobus: Davide corre subito a chiedere informazioni sulle tratte notturne, lo seguo con lo sguardo speranzoso ma non troppo. L’autista non dispone di tutti gli orari degli autobus internazionali, da cui ci invita ad aspettare il prossimo: è quasi certo che in quell’autobus, proveniente da più lontano, vi siano. Così aspettiamo altri venti minuti, meditando possibili soluzioni su posti alternativi per dormire, ma non trovando nessuna opzione soddisfacente: le chiese a quest'ora sono tutte chiuse dalle loro enormi serrature, nonostante all'origine della loro storia fossero state concepite anche come rifugi per dei cristiani senzatetto in difficoltà, che sarebbero stati accolti a braccia aperte nella casa di Dio. La stazione stessa è ben chiusa e protetta da sistemi di allarme efficientissimi, bagni pubblici aperti zero, insomma il nulla. La temperatura non sembra nemmeno troppo bassa, pensiamo di poter resistere tranquillamente per una notte fuori, magari divertendoci anche in quella situazione mai vissuta e per questo anche un po’ intrigante. Ma ci sbagliamo…

Aiuola

Il secondo ed ultimo autista arriva col suo mezzo e ci informa che il prossimo bus per Haparanda parte l’indomani alle otto e mezza di mattina, prima non c’è assolutamente nulla. Ci guardiamo pensando la stessa cosa: siamo nella palta fino al collo. Prima di sparire definitivamente insieme al suo bus ormai vuoto, l’autista ci consiglia un albergo poco distante dove tentare di trovare una sistemazione per la notte. Nisba: le porte sono sbarrate, si può entrare solo digitando un codice sulla tastiera a muro, che logicamente non conosciamo. Così ritorniamo verso la stazione passando attraverso una collinetta erbosa con qualche albero sulla sommità, poco distante dalla stazione e dall'adiacente negozio di dolciumi, illuminato solo all’interno da una flebile luce di guardia. Decidiamo di usare quella piana erbosa come giaciglio improvvisato per la notte. È decisamente più comoda di una panca di legno, se non altro ci si può sdraiare liberamente senza impedimenti agli arti e ci possiamo girare senza cadere. Il freddo inizia ad aumentare, perciò ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a disposizione, incluso il kee-way. Degli asciugamani stesi sull'erba fradicia di condensa fungono da materasso per non bagnarsi completamente e per stare un po’ più comodi, gli zaini circondano il punto in cui poggia la testa così da isolare il più possibile dal vento, i piedi sono infilati in un sacchetto di plastica per ridurre al minimo la dispersione del calore. Abbiamo da due a tre strati di pantaloni addosso, e pure abbiamo freddo. Tocca a me tentare di dormire per primo, ma non se ne parla proprio di addormentarsi: il poco sonno residuo ora mi è passato completamente, sono nella fase in cui si darebbe qualsiasi cosa per scivolare nel sonno ma il corpo non collabora. Capendo che di questo passo non ci riuscirò mai, cedo volentieri il mio posto a Davide e vado a farmi un giro nella stradina sottostante, in realtà una pista ciclabile. Dalla nostra posizione sopraelevata possiamo vedere tutti gli edifici attorno, tutti con le luci rigorosamente spente, tranne la stazione. Quell'ambiente riscaldato ed illuminato è terribilmente invitante, ma assolutamente inaccessibile. Solo per un attimo una persona si avvicina alle pesanti porte per controllarle: è un addetto alla vigilanza, che dopo aver controllato che gli allarmi siano in funzione riparte senza più farsi vedere. Gli unici esseri umani che rimangono in zona sono un paio di tassisti, che nella loro macchina riscaldata stanno fermi per qualche minuto prima di ricevere una chiamata e ripartire, sparendo anche loro dalla nostra vista.

Stella cadente

La rossastra luce del sole, fioca ma costante, si intravede sopra l'enorme centro commerciale torreggiante davanti a noi, come un'alba dormiente che non si risveglia mai. Un altro momento decisamente magico: nonostante la situazione sia piuttosto disagevole, per un attimo le percezioni sgradevoli passano in secondo piano osservando nuovamente quei ben conosciuti colori. È la notte di San Lorenzo: sarebbe veramente un bel colpo riuscire a vedere una stella cadente. Così rivolgo gli occhi al cielo: grazie al cielo in buona parte limpido vedo le lontanissime stelle che a milioni di anni luce da noi bruciano ed esplodono in una frazione di secondo con una forza inimmaginabile, creando tutta la materia che ci sta componendo ora. Osservandole mi pare che si muovano, mentre in realtà sono ingannato dal loro costante tremolio e dal freddo che sento, il quale altera un po’ le mie percezioni. Il mistero che racchiudono queste stelle così infinitamente lontane ed immense mi fa ancora una volta riflettere e rimango ad osservarle a lungo. Proprio mentre sto desistendo per la troppa immobilità e i dolori al collo, finalmente vedo una stella cadente! È velocissima, percorre circa metà cielo in meno di un secondo, per poi sparire in un lampo, così come è apparsa. Il meteorite si è completamente vaporizzato al contatto con la rovente atmosfera terrestre, lasciandomi un piccolo regalo che mi allieta per qualche secondo la difficile permanenza nella morsa del freddo.

Notte gelida

La situazione, in un silenzio completo, potrebbe apparire addirittura invidiabile, ma il freddo inizia a farsi davvero intenso: dopo le due di notte i minuti sembrano ore, ogni tanto controllo l'orologio pensando che sia passato parecchio tempo ormai, quando in realtà le lancette si sono spostate avanti solo di una decina di minuti. La lentezza del passare del tempo ora è davvero scoraggiante. Il freddo diventa sempre più penetrante: è sì estate, ma ci troviamo pur sempre in un paese della Svezia settentrionale, appena sotto il Circolo Polare Artico. Ogni tanto passano delle persone in bicicletta sulla pista apposita proprio davanti alla nostra aiuola, coperti la metà di noi ma per niente sofferenti. Cosa ci facciano in giro per il parco in bici alle due di notte passate, non riesco veramente a spiegarmelo. Forse hanno le percezioni del freddo simili a quelle della piccola statua di bronzo che in mezzo all’erba del parco si regge tranquilla sulle gambe, indifferente a tutto.

Sono costretto a camminare avanti e indietro senza sosta, saltellando per non congelarmi i piedi, che stanno già perdendo buona parte della sensibilità. Tiro fino in cima la cerniera lampo della giacca, alitando nel colletto per riscaldarmi la zona delle giugulari. Ottengo come unico risultato quello di infradiciare la giacca di vapore acqueo, senza per questo sentire alcun beneficio. Davide si sveglia dopo aver dormito circa tre quarti d'ora, ormai sono le tre e tocca a me cercare di dormire, anche perchè non ne posso più di stare in piedi. Le poche panchine presenti sono completamente fradice e non posso di certo sedermici. Mi sdraio al suo posto, cercando di dormire il prima possibile per sottrarre i miei sensi a quell'ambiente freddo. Mi accorgo di tremare come una foglia, cerco di sistemarmi in modo da sentire meno freddo, piano piano mi calmo e riesco a prendere sonno, o almeno così pare. Forse ho dormito venti minuti in tutto, ma è una stima ottimistica. Alle tre e mezza mi sveglio, con i sensi ottusi e faticando a capire se mi sia realmente addormentato o no. In questi venti minuti scarsi il freddo si è fatto insopportabile: stare fermi è ora impossibile. Guardo nuovamente il cielo, in corrispondenza della decisa sfumatura rosata all'orizzonte, sperando di vedere il sole comparire. È un inganno: la luce non prelude all'alba, rimane sempre beffardamente uguale e solo accennata, senza riscaldare minimamente l'atmosfera. Prendiamo insieme a vagare senza meta, cercando di riscaldarci con ben pochi risultati. Il tempo si è enormemente dilatato e passa con una lentezza ancora più insostenibile di prima. Darei qualsiasi cosa per poter entrare in un ambiente riscaldato. Ci aggiriamo per le strade della città, cercando qualche locale aperto dove poterci rifugiare, ma non c'è niente di niente. Tutti i negozi sono perfettamente chiusi dai loro lucchetti, alcuni hanno le luci interne di guardia ancora accese, altri sono completamente bui. Sulle mura di alcune case ci sono dei bocchettoni a muro, che sputano fuori aria forse calda: proviamo a scaldarci col getto d’aria, che però è fredda e non ci è di nessun aiuto. L'unico posto aperto che incontriamo è un hotel, nel quale però è meglio non provare ad entrare, ci caccerebbero probabilmente subito scambiandoci per vagabondi o ubriachi. E anche entrando, cosa avremmo potuto fare? Pagare profumatamente una camera per una notte, solo per stare lì tre ore? Decisamente è meglio rinunciare, anche perchè l'uomo con la camicia bianca che sta dietro il bancone sembra guardarci molto sospettosamente. Dobbiamo cavarcela da soli fino alle sei e mezza. I sei o sette strati di vestiti che portiamo addosso sembrano non riscaldarci affatto, è quasi come non averli: in questo momento la giacca piumino che ho lasciato a casa mi farebbe molto comodo. I minuti però passano, lentamente ma passano: noi non ce ne accorgiamo, ma piano piano arrivano le quattro, poi le quattro e un quarto, poi le quattro e tre quarti, fino ai primi tenui accenni di un'alba, che qui avviene molto presto. Dopo ore e ore passate così, intorno alle cinque la prima luminosità del sole ci investe con i suoi benefici raggi. Ci sembra di rinascere. Non ho mai amato l'amico astro come ora!
Dopo la prima alba, mentre il sole sale lentissimamente nel cielo, ricominciamo a scaldarci efficacemente. Il sangue riprende a circolare nelle arterie periferiche con decrescente difficoltà, la mente si risveglia dall'ottundimento. Piano piano i nostri corpi tornano in temperatura, immobili di fronte alla luce per assorbire tutto il calore possibile, spostandoci solo per essere investiti meglio dai raggi quando salendo incontrano delle fronde di alberi vicini che li attenuano un po’. Non serve più la camminata forzata per non fare la fine dello stoccafisso che giace quasi intonso nella tasca inferiore del mio zainetto, chiuso con lo scotch. Dopo non molto però delle perfide nuvole nerastre, come mandate da un diavoletto dispettoso, oscurano completamente il sole, riportandoci in un attimo al gelo: pochissimi secondi e ricominciamo ad avere freddo esattamente come prima. Ritorniamo quindi a camminare per le vie della cittadina, maledicendo le nubi. Quando vediamo i vetri delle automobili parcheggiate lungo la strada che sono completamente coperti di ghiaccio, capiamo che stanotte deve aver fatto proprio freddo! Con una lentezza esasperante arrivano le sei di mattina: ancora solo una mezz’ora e potremo finalmente entrare nella stazione, per rimetterci in sesto e successivamente prendere il nostro autobus che arriverà dopo altre due ore. Il sole improvvisamente rifà capolino, illuminando un tratto di strada del piazzale dei bus, verso il quale ci spostiamo immediatamente. Ancora una volta ringraziamo in silenzio la nostra stella. I minuti passano ora un po’ più in fretta, finchè finalmente una donna, coi capelli raccolti e vestita solo di una giacchetta leggera, si avvicina ad un entrata secondaria del negozietto di dolciumi, entrando per non uscirne più. Deve per forza essere la commessa che prepara il negozio per aprirlo: enorme il sollievo quando, dopo aver armeggiato un po’ all'interno e acceso qualche luce in più, la vediamo uscire dalla porta d'ingresso per sistemare i quotidiani nuovi sui supporti, muovendosi in fretta per non stare troppo fuori al freddo che noi stiamo subendo da ore. Vorrei entrare immediatamente, ma è meglio aspettare ancora qualche minuto finchè non avrà finito di sistemare il negozio, come mi fa notare il mio compagno. Aspettare sessanta secondi in più ormai non fa molta differenza. Appena possiamo spingiamo finalmente quella porta ed entriamo anche noi, primi intirizziti clienti della giornata, con lo stomaco vuoto da troppe ore ed ormai anch’esso in ribellione.
Ci dirigiamo immediatamente verso la macchinetta del caffè self – service, proprio davanti a noi: due cappuccini bollenti col croissant di contorno vengono immediatamente pagati con la carta di credito fortunatamente accettata, e consumati avidamente. Una colazione banale per qualcuno che si è svegliato nel suo letto al caldo, ma per noi la più soddisfacente mai mangiata! Il liquido caldissimo scende giù nello stomaco bruciando piacevolmente al suo passaggio nella gola e nell'esofago, rimettendoci in sesto poco alla volta, mentre l'indaffarata ma gentile commessa continua a sistemare il negozio, indifferente alle nostre vicende. Di sicuro non ha la minima idea della notte che abbiamo appena passato. Ma non ha nemmeno idea di quanto la stiamo benedicendo e ringraziando per averci aperto quella porta, nonostante sia solamente il suo dovere. Attingiamo dei biscotti dallo zaino, come supplemento "fai da te" alla colazione comprata per riempire il più possibile i nostri stomaci in sommossa. Dopodichè ci sediamo su quelle panche che abbiamo visto per tutta la notte da dietro i vetri, finalmente a noi accessibili. Stravaccati sul legno rosso, nel caldo ambiente della piccola stazione, il gelo è ormai un ricordo lontano.

Malessere

Mi sto quasi addormentando sulla strana panca su cui mi sono sdraiato per cercare di recuperare un po’ di sonno arretrato, sono in dormiveglia profondissimo: se mi dicessero qualcosa sentirei le parole ma probabilmente non intenderei niente. È quello stato di trance in cui i pensieri e le immagini mentali si fondono con la realtà, in cui ti trovi ad immaginare ed abbinare cose e situazioni assurde tra loro, senza alcuna logica. Non è piacevole, preferirei un buon sonno invece che questo stato di ottundimento che non dà riposo. Ci pensa però Davide a riscuotermi, quando è il momento di prendere l'autobus: alle otto e venti passa finalmente questo mezzo che ci porterà ad Haparanda, al limite del confine svedese, per poi entrare in Finlandia dall'adiacente cittadina dal buffo nome di Tornio. Di malavoglia abbandono il mio giaciglio ed usciamo nuovamente alla fredda aria di Luleå.
Fuori non fa certo caldo, ma la temperatura è decisamente più sopportabile di quella della notte che ormai ha definitivamente finito di aggredirci. Il bus a due piani arriva a prenderci, tardando però a posizionarsi correttamente nella sua fermata: in questo momento odio profondamente l'autista che se la sta prendendo comoda, poichè il mio intestino sta malissimo dopo tutto il freddo che ho preso e non riesco più a trattenermi, gli spasmi non mi danno tregua. Prego con tutte le mie forze che su quel bus ci sia un bagno, eventualità molto probabile essendo un mezzo turistico decisamente grande. Il biglietto interrail ci fa salire gratis per cui risparmio un po’ di tempo utile per raggiungere il gabinetto, che scopro subito esserci. Sistemo frettolosamente le mie cose sul sedile e ci vado immediatamente, trovandolo fortunatamente libero. Se il bus non fosse munito di servizi, non so veramente come farei! Nelle due ore di strada che ci separano da Tornio visito il capiente stanzino ben cinque volte, battendo quasi sempre la testa contro le bassissime porte che separano uno scompartimento dall'altro, per la troppa fretta di raggiungerlo. Non è solo il mio intestino a soffrire: non mi sento per niente bene in generale, mi sale un po’ di febbricola e ho i brividi, sento caldo e vorrei solamente essere in un qualsiasi letto a dormire. Invece mi tocca cambiare due bus e poi prendere immediatamente un treno che arriverà a destinazione solo in tarda serata. Non avendo vie d'uscita cerco di riprendermi il più possibile, non posso permettermi il lusso di stare male. Il mio impegno ha successo: evitando di addormentarmi e tenendomi sveglio mentalmente, all'arrivo ad Haparanda sto quasi bene. Anche questa volta ho vinto io contro il freddo e le piccole avversità del cammino.